Napoli
ha reso "universale" la sua gastronomia che artiglia l'olfatto prima
del palato. Vi diamo una ricetta speciale per "pappiare".
Che
cos'è la cucina a Napoli? Poesia, teatro, rappresentazione della
ragionevolezza dell'essere. Eduardo De Filippo ha dedicato una delle sue
celebri liriche a '"o rraù", che non è solamente sugo, condimento, ma
rappresenta l'essenza stessa della napoletanità: cultura, passione,
tradizione. Napoli mille colori, come una canzone di Pino Daniele,
Napoli mille sapori. Napoli contraddizione e rivoluzione, oscenità e
splendore, miseria e nobiltà. Parlare di sapori a Napoli può risultare
facile, quasi scontato. Poche città, come questa, hanno reso la loro
gastronomia universale, pensate alla pizza alimento trasversale e
globale (la globalizzazione non è che sia tutta "fetenzia"), e in modo particolare alla "margherita", esaltata, per le sue qualità, dai nutrizionisti di ogni latitudine.
Pochi
piatti possono vantare un'origine così nobile: si racconta che fu il
pizzaiolo Raffaele Esposito la inventò apposta nel 1889 per la Regina
Margherita di Savoia in visita nella città, anche se esisteva
sicuramente già al tempo dei Borbone
(2).
La pizza la potete mangiare ovunque, dal Manzanarre al Reno, ma a
Napoli la fanno secondo la vecchia tradizione, soffice, non grande. Qui
c'è anche il calzone con provola e scarola. Si può provare la metà pizza
e metà ripieno, quest'ultimo cotto a "bocca di forno".
Napoli
è passato, ma anche futuro. In questo momento c'è una grande
effervescenza, aprono nuovi locali, altri vengono rimodernati. Per chi,
come me, l'ha percorsa in tutti i suoi sensi unici, più o meno
rispettati, Napoli in cucina non è mai stata una delusione. Dalle
orecchiette con cozze e zucchine alla "Sacrestia" (ora il ristorante più
famoso e affascinante della città ha una sua delegazione anche a
Milano), su a via Orazio, a una pizza di "Ciro a Mergellina", da una
parmigiana di melanzane di "Mimì alla Ferrovia", a un arancino
"accattato" in una friggitoria di Seccavo, da un'insalata di mare nello
splendido ristorante dell'hotel Vesuvio a un pesce alla griglia del
"Sarago", fino alla pizza fritta (ricotta, mozzarella, pomodoro e
ciccioli di maiale) cotta in padella con la sugna, di "Matteo" in via
dei Tribunali.
Eppure
di scontato non c'è nulla. E qui torniamo a Eduardo e al ragù,
diventato protagonista di Sabato, domenica e lunedì, commedia del 1959,
poi film con, ovviamente, Sofia Loren. Donna Rosa, gran sacerdotessa in
cucina, così istruisce la cameriera Virginia che è stanca di tagliare le
cipolle: «La buonanima di mia madre diceva che per fare il ragù ci
voleva la Pazienza di Giobbe. Il sabato sera si metteva in cucina con la
cucchiaia in mano, e non si muoveva da vicino alla casseruola nemmeno
se l'uccidevano. Lei usava o il "tiano" di terracotta o la casseruola di
rame. L'alluminio non esisteva proprio. Quando il sugo si era ristretto
come diceva lei, toglieva dalla casseruola il pezzo di carne di
"annecchia" e lo metteva in una sperlunga; come si mette un neonato
nella «connola», poi situava la cucchiaia di legno sulla casseruola, in
modo che il coperchio rimaneva un poco sollevato, e allora se ne andava a
letto, quando il sugo aveva "pappiato" per quattro o cinque ore».
Esposta
la filosofia, ecco la ricetta (per sei persone): 5 Kg di manzo o altro
taglio di vaccina (annecchia, animale non più vitello, ma non ancora
manzo) giovane; 500 gr di polpa di maiale in un solo pezzo; 400 gr di
cipolle; 100 gr di sugna (strutto); 100 gr di lardo; 100 gr di pancetta;
1 bicchiere di vino bianco; 4-5 cucchiai di concentrato di pomodoro;
500 gr di passato o conserva di pomodoro, possibilmente fatta in casa; 4
cucchiai di olio; sale.
"Pappiare".
Ma quale altro verbo vi travolge con il profumo di qualcosa di
indimenticabile? Chiudete gli occhi e sentite il "plop, plop, plop" di
questa lava gustosa, messa a scoppiettare dal mattino presto, sentite le
bolle che si formano sulla superficie e poi scompaiono. L'olfatto ne
viene artigliato prima del palato. È ora di buttare gli ziti e farli
avvolgere dal ragù. Ma anche gli schiaffoni, paccheri giganti, vanno
bene.
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Ho scoperto, io, genovese che il sugo alla genovese,
preferibilmente le penne, aveva di nuovo la carne (di maiale meglio)
come protagonista. Una volta, a fine estate, era tempo di mettere i
pomodori San Marzano in bottiglia: spinti giù, uno a uno, da farci il
sugo quando viene Natale. Adesso si trovano in tutte le stagioni
dell'anno. Però qui hanno un altro gusto, come i peperoni imbottiti,
specialmente quello tondo, "papaccella", che diventa il contenitore per
spaghetti, olive e capperi. Pasta e fagioli, pasta e ceci, pasta e
lenticchie. Calamari, totani, polpo e patate, pesce di tutti i generi
continuano il viaggio napoletano nel gusto. Adesso piace molto la pezzogna,
pesce del golfo non di allevamento. Non che orate, spigole, saraghi,
ormai quasi tutti "allevati", siano cattivi, tutt'altro, ma il gusto
della pezzogna ha qualcosa di speciale, per intenditori.
Napoli
scivola via tra i suoi odori, i suoi sapori, le trecce e le mozzarelle
di "Mandara" e "Luise", gli sfizi di "Imperatore", i dolci di
"Scaturchio", del "Bar Riviera" (con quanti pacchi e pacchetti di questo
impareggiabile bar-pasticceria ho ripreso la via di casa), di
"Cimmino": pastiera, babà, zeppole, cassata napoletana. Le sfogliate,
una volta, solo "Pintauro" te le serviva calde di forno. Era un
classico: chi teneva "core scuro scuro", perché anche la nostalgia non è
più quella di un tempo, si riscaldava l'anima. Adesso calde si trovano
un po' dappertutto. E ovunque crescono piccoli grandi locali che si
affiancano ai classici ("Ciro" a Santa Brigida, la "Bersagliera", la
"Cantinella", "Rosolino", "Giuseppone a mare", "Cicciotto a Marechiaro",
"Trianon da Ciro"). Provare "La Cantina di Sica" al Vomero, la "Cantina
di Triunfo" a Chiaia, la "Stanza del Gusto" in vicoletto Sant'Arpino,
dove offrono, tra l'altro, i tacconi al ragù di lingua di maiale
ripiene. E poi "Vadinchenia" dove si respirano anche sapori di Lucania.
D'obbligo esplorare, oltre alle mozzarelle, il prosciutto avellinese, il
caciocavallo di Sorrento, la ricotta del paniere di fuscella, il
capicollo dell'Irpinia, la soppressa forte. Seguire il profumo dei
vini: Greco di Tufo, Falanghina, Biancolella d'Ischia, Aglianico e poi
il nettare dei Feudi di San Gregorio del Sannio, azienda tra le migliori
d'Italia. In occasione di una gita sulla costiera amalfitana, tappa
fondamentale è "Don Alfonso" a Sant'Agata dei Due Golfi, ristorante che
non ha bisogno di spiegazioni, perché è uno degli snodi della
ristorazione italiana. Solo il nome sa di nobiltà. Solo il nome è un
verso. Ma nel nostro cammino partenopeo tutto quello che abbiamo
incontrato è stato un inno al sapore. Una poesia infinita di cui non è
stata scritta ancora l'ultima strofa.
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