Medaglia in bronzo dedicata ad Alcmeone
di Crotone(V sec. a.C.) medico e folosofo
(collezione Francesco di Rauso, Caserta) clicca sull'immagine per ingrandire
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Napoli
è una città antichissima, benché oggi aperta a tutti i venti della
modernità. La fondazione sull'altura del Monte Echia di Palaepolis (la città antica) risale con molta probabilità al IX secolo a. C. La stessa Neapolis
(la città nuova) mostra ancora ben leggibile il tracciato insediativo
del V secolo a. C. La straordinarietà della permanenza di questo
tracciato nel corso dei millenni ha rappresentato un motivo di
ammirazione fin dall'età rinascimentale, quando vari umanisti, tra i
quali il dottissimo Fra' Giocondo da Verona, dedicarono studi minuziosi
al rilievo della città per verificare l'attendibilità dei principi
insediativi dei greci, in seguito rielaborati da Vitruvio e dalla
trattatistica classica.
L'impianto
della nuova città fu delineato infatti con rigore geometrico esemplare
per l'armonica proporzione dei rapporti metrici, ben calibrati in
relazione al luogo ed articolati su un nitido reticolo ortogonale di
cardini e decumani. Sarebbe tuttavia un equivoco interpretare tale
perfezione tecnica come aspirazione ad una razionalità assoluta. Anzi,
fin dall'origine la città del logos fu avvolta nelle spirali labirintiche del mito.
Molta
attenzione fu prestata ai misteri del paesaggio. Se è vero che le
dimore furono adagiate con meticoloso ordine su un terreno in leggero
declivio, resta altresì innegabile che tale insediamento (cinto da mura)
era consapevolmente collocato nel bel mezzo di due (magici) fenomeni
vulcanici: la grande montagna di fuoco del Vesuvio ad est e le "terre
ardenti" dei Campi Flegrei ad ovest. A nord la città era protetta dalle
alture montuose, simili a scudi di pietra contro i venti più freddi, ma
aperta a sud sull'azzurro del mare per l'approdo delle navi, delle
merci, degli aromi, dei linguaggi e delle genti provenienti dalle più
variegate terre del Mediterraneo. Non sfuggì all'immaginativa
osservazione dei fondatori ellenici la suggestiva metafora del sole che
sorge dietro il gigantesco cono lavico del Vesuvio e tramonta nei Campi
Flegrei, quasi immergendosi nel cerchio d'acqua dell'Averno, là dove la
leggenda vuole che si dischiudesse il varco iniziatico per la discesa
negli Inferi.
"Gli
antichi - ha scritto Italo Calvino – rappresentavano lo spirito della
città, con quel tanto di vaghezza e quel tanto di precisione che
l'operazione comporta, evocando i nomi degli dei che avevano presieduto
alla sua fondazione: nomi che equivalevano a personificazioni di
elementi ambientali, un corso d'acqua, una struttura del suolo, un tipo
di vegetazione, che dovevano garantire della sua persistenza come
immagine attraverso tutte le trasformazioni successive, come forma
estetica ma anche come emblema di società ideale. Una città può passare
attraverso catastrofi e medioevi, vedere stirpi diverse succedersi nelle
sue case, vedere cambiare le sue case pietra per pietra, ma deve, al
momento giusto, sotto forme diverse, ritrovare i suoi dei".
Napoli
ha metaforicamente trasfigurato il senso della sua fondazione nel mito
di Partenope, desunto da un più antico culto della sirena radicato nella
preesistente città di Palaepolis. Come in altre leggende, diversi
significati allegorici si sono fusi e confusi con enigmi esoterici, in
un groviglio semantico difficile da districare in chiave scientifica.
Tuttavia
è tutt'altro che inutile tentare l'ermeneutica dei miti, non foss'altro
perché sotto l'apparente ingenuità delle favole si celano valori
antropologici profondi dell'onirico collettivo.
Nella
versione più arcaica del mito, Partenope era un ibrido di gentilezza
umana e di belluinità animale: il volto di una fanciulla (vergine)
connesso al corpo di un uccello (e non già di un pesce, come nella
successiva e più nota leggenda). La vergine alata sarebbe nata dal
dio-fiume Acheloo e dalla madre-terra Persefone. Nella crisalide di
questa fantasia è racchiusa una foresta di simboli che rinvia agli
elementi primari della Natura: il cielo, la terra, l'acqua, il
sottosuolo.
Ma
c'è dell'altro. Vivendo tra le rocce e tra i boschi lungo le coste del
mare, Partenope aveva tentato invano di sedurre Ulisse, propinandogli
con la dolcezza del suo canto l'inganno della rappresentazione idilliaca
del passato. Respinta dall'astuto "eroe della conoscenza", deciso a
proseguire a tutti i costi la rotta esplorativa nell'arcipelago delle
civiltà mediterranee, spinto dall'incontenibile volontà di nuove
esperienze, la sirena si era suicidata, lanciandosi dall'alto di una
rupe (katapontismòs), ed il suo corpo, trainato dalle onde del mare, era
rimasto imbrigliato tra gli scogli del golfo napoletano.
Le mura a Piazza
Bellini
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Nel
mito arcaico il corpo di Partenope fu sepolto a Megaride, l'isolotto di
approdo dell'antica Palaepolis, ma nei racconti posteriori il sepolcro
della vergine venne traslato dentro le mura di Neapolis, in assonanza
con la diffusa credenza dei riti di fondazione. Resta incerta l'esatta
ubicazione del sepolcro. Alcune fonti indicano un antro sottostante
all'attuale Chiesa di San Giovanni Maggiore, ma altre lo collocano nel
cuore stesso della nuova città, vale a dire in un naos racchiuso tra le
mura isodome (V secolo a.C.) che funsero poi da basamento del Tempio dei
Dioscuri (I secolo d.C.). Questo Tempio dominava lo scenario
dell'agorà-foro con il suo spettacolare pronao esastilo, che sembrava
destinato a sfidare il tempo per la sua forza simbolica, tant'è che era
stato preservato anche in età cristiana come allegorico ingresso alla
chiesa teatina e ritratto come paradigmatico reperto dell'antichità
classica da Andrea Palladio nei Quattro Libri dell'Architettura. Solo il
5 giugno del 1688 un violento terremoto distrusse l'antico pronao del
quale permangono tuttavia ancora due colonne corinzie incastonate nella
bella facciata settecentesca dell'attuale Chiesa di San Paolo Maggiore.
Il luogo dove sorse l'antica agorà (oggi denominato Piazza San Gaetano),
resta a dir poco mirabile, non foss'altro perché nei suoi monumenti
sono sedimentati duemila e cinquecento anni di storia.
A
ridosso del chiostro grande del convento teatino sono riconoscibili i
resti del Teatro del 62 d. C. e lo stesso andamento sinuoso di via San
Paolo (in direzione di via Anticaglia) lascia percepire l'impianto del
coevo Odeon. Si tratta di due significative testimonianze d'età romana
per le quali è previsto un piano di recupero atto a liberarle dalle
superfetazioni edilizie che le sovrastano. Al di sotto della cattedrale
gotica di San Lorenzo si possono però già visitare gli scavi ipogei
delle strade con botteghe che giungevano nel foro, in una densa
stratificazione archeologica verticale unica in Europa.
La stratificazione sotto
il Convento di San Lorenzo Maggiore
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Ritornando
ai miti sulla genesi della città, la favola più suggestiva resta quella
che descrive la metamorfosi di Partenope, dissoltasi nella morfologia
stessa del paesaggio, distesa lungo tutto l'arco del golfo, con il
"capo" poggiato a oriente nell'altura di Capodimonte, il "corpo"
delimitato dalle mura urbane ed il "piede" (o coda) ad occidente,
immerso nel mare ed affiorante nel promontorio collinare di Posillipo.
Così il rito della fondazione urbana si estese al culto del paesaggio,
in armonia con gli ideali ellenici di venerazione della natura.
Per
ironia della storia, anche la reale crescita urbana sembra aver seguito
il tracciato di questa immaginaria metamorfosi. Il nocciolo storico più
antico - racchiuso all'origine nel nitore euclideo del suo tracciato,
ancora ben visibile dall'alto della Certosa di San Martino - è cresciuto
distendendo come una pianta la rete delle sue lunghe radici sulle
adiacenti colline, in uno sviluppo apparentemente senza ordine. Vista
dal mare, però, la città appare a suo modo armonica, adagiata sulla
cavea naturale delle sue alture collinari simile ad un teatro ellenico
aperto sullo spettacolo del golfo. È la natura insomma ad aver offerto
la base orografica del fascino urbano di Napoli. Non a caso l'immagine
da cartolina per antonomasia ritrae la città racchiusa nell'intervallo
tra un pino e lo sfondo del Vesuvio, mentre in altre città europee viene
eletto quasi sempre un monumento a fungere da simbolo. Si pensi alla
Tour Eiffel per Parigi, al Big Ben per Londra o a San Pietro per Roma.
Certo,
nel secolo che si è appena concluso l'espansione edilizia e lo sviluppo
industriale hanno recato ferite difficilmente rimarginabili alla
bellezza del paesaggio naturale. Valga da esempio l'installazione a
Bagnoli nel 1905 della fabbrica siderurgica, poi ingigantitasi con la
ridenominazione di Italsider. È tuttavia in atto un piano per correggere
il paradosso urbanistico novecentesco di aver eretto uno stabilimento
industriale inquinante in un luogo di innegabile seduzione ambientale,
su una spiaggia (Coroglio) prospiciente l'isolotto di Nisida che
rappresenta la metaforica porta d'ingresso ai Campi Flegrei.
Si
potrebbero menzionare anche altri esempi di ripristino del rapporto
della città con il mare, tra i quali l'abbattimento della barriera
portuale a Piazza Municipio o la riqualificazione ad oriente dell'altro
complesso industriale dismesso (Corradini).
Ma quel che più conta è il senso di questa nuova fase urbana. Dopo anni di oblio, la città sembra aver ritrovato i suoi dèi.
Articolo tratto da
Benedetto Gravagnuolo,
Preside della Facoltà di Architettura dell'Università di Napoli, su Ulisse, la Rivista di bordo dell'Alitalia.
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